IN PUNTA DI PIEDI” di Carloalberto Giovannetti

Con la decima edizione si conclude il Premio Arnaldo Giovannetti e la pubblicazione delle antologie di racconti incentrati su temi cari a mio padre.

E’ una decisione che ho maturato a lungo e da lungo tempo, e che ho condiviso con mia sorella e, per correttezza, con il mio editore. Non è dovuta alla pandemia, che pure ha cambiato molto nelle nostre vite. In realtà sono convinto che sia una questione fisiologica, naturale, e che sia venuta da sé.

Penso anche che sia approvata da mio padre. Nei dialoghi, abbastanza continui, che ho con lui, il “progetto” del Premio era qualcosa che inizialmente gli sembrava troppo ma che, col tempo, gli ha fatto piacere esistesse. Soprattutto per l’atmosfera che si creava nei pranzi coi giurati e nelle giornate delle premiazioni.

Non posso esimermi, alla fine di questo meraviglioso percorso, dal ringraziare chi ha reso possibile tutto questo: la mia famiglia, mia moglie Laura, mia sorella, mia mamma, i quattro nipoti di Arnaldo, i giurati Antonio, Francesco, Michele, Marco, Mario (che le ultime edizioni le ha seguite con mio padre “davanti al caminetto, con dù tordelli, un bicchiere di vino e un pezzo di formaggio”) e Nicola (unico esempio di “giurato non giurato”) nonchè l’editore Marco Del Bucchia. A queste persone si devono aggiungere sicuramente Giacomo e Roberta, che hanno creato il sito e mi hanno dato gli spunti su come diffondere online il concorso, e tutte le persone che si sono prestate per dare una mano nell’organizzazione, dal rinfresco all’abbellimento delle sale che hanno ospitato la presentazione: Maria Cristina, Lino, Francesco & Cristina, Laura, Paola, Daniele, Valentina (che mi ha intervistato!). E’ impossibile elencarli tutti in modo esaustivo e sicuramente ne ho dimenticato qualcuno. Chiedo venia.

Le istituzioni sono state presenti in alcune edizioni, patrocinando il Premio a titolo gratuito: i Comuni di Seravezza e Stazzema, la Provincia di Lucca, il Parco della Pace di Sant’Anna. Anche a loro va il mio grazie. Mi fa piacere poi ricordare, proprio nell’anno in cui Gino Strada ci ha lasciato, che una parte del ricavato di una delle edizioni è andato a favore di Emergency, cosa che mio padre ha sicuramente gradito.

Le cornici del Premio sono state assolutamente versiliesi, dalla Scuderie del Palazzo Mediceo di Seravezza, a Querceta, a Villa Bertelli, dove si sono svolte tutte le ultime edizioni.

I racconti e gli autori, invece, sono arrivati da tutta Italia, e a volte dall’estero, senza soluzione di continuità, per tutte le edizioni. A loro va il mio grazie incondizionato. Con alcuni degli autori è nato addirittura un rapporto che va oltre la partecipazione al Premio, e questo è assolutamente in linea con lo spirito del Premio e con ciò che mi prefiggevo quando l’ho pensato.

Il Premio – e quindi il ricordo di Arnaldo – ha richiamato in Versilia amici vicini e lontani, a volte persi di vista, e amici dei miei figli, dandomi grandi emozioni, e sono grato a tutti coloro che sono potuti venire, anche solo una volta, per farmele provare. Esce così di scena, in punta di piedi, esattamente come vi è entrato, nello stesso stile e con la stessa serenità che ha contraddistinto il mio babbo.

Dedico la copertina di questa ultima edizione ai giurati, vero “motore” del Premio, ritratti durante la disamina dei racconti, dieci edizioni fa.

EDIZIONE 2021: “IL FIUME” di Carloalberto Giovannetti

Premetto che, per questa edizione, ho optato per una presentazione piuttosto articolata. Il motivo è che volevo spiegare che cosa è, per me – e cosa è stato per mio padre – il nostro Fiume. 

Lo dico spesso e lo scrivo ancora: per quanto identificata come posto di mare, la Versilia ha la fortuna di essere un microcosmo la cui parte incontaminata, selvaggia e senza dubbio più autentica, è quella delle Alpi Apuane, che al mare fanno da cornice. In mezzo scorre il Fiume, il Versilia appunto, le cui acque toccano i soli quattro Comuni che compongono la Versilia storica. Non è una questione di campanile, sono storia, tradizioni, usi e costumi diversi da quelli delle zone circostanti.

La mia famiglia è nata qui, sia da parte di padre che di madre, e le origini si disperdono fra questi monti e il mare, e lungo questo Fiume, che è stato parte integrante delle nostre vite: a volte in modo leggero, ingenuo e divertente, altre in modo drammatico, come vedremo. Ho avuto la fortuna di vivere in un periodo di grandi cambiamenti, e quando racconto ai miei figli alcune cose accadute quando ero bimbo mi rendo conto che, anche se risalgono soltanto a pochi decenni fa, possono sembrare appartenenti a un’epoca lontanissima, ormai remota.

In un’altra prefazione ho raccontato che, sull’aia davanti a casa mia, a Ranocchiaio, fino agli anni Ottanta e Novanta, a maggio, dunque nel mese mariano, si spargeva il grano al sole mentre le donne, in una stalla accanto, recitavano il rosario. In questa prefazione posso dire, a proposito del Fiume, che ho ricordi nitidi di quando vi accompagnavo mia nonna paterna, che abitava in Corvaia, a battere i panni ai lavatoi, assieme ad altre donne (ricordo la Grazia e l’Evidea, nome particolarissimo): l’acqua scorreva di continuo in un getto forte e gelato, ma non mi era consentito mettervi le mani.

E di essere andato “al Fiume”, da bimbo - quando era così inquinato dalla marmettola che lo chiamavamo “latte Versilia” - a giocare a pallone nel campo polveroso che vi sorgeva accanto, ricevendo i rimproveri dei miei genitori quando tornavo a casa, sudaticcio e sporco. Lungo il Fiume, per cinque anni, con l’amico e compagno di classe Nicola, siamo andati a scuola a Pietrasanta, in bicicletta tutti i giorni, anche con la pioggia, perché non ci piaceva prendere la corriera.

Mio padre ha vissuto la sua infanzia sui monti intorno a Seravezza; oggi su Youtube si celebrano quelle zone come “piscine naturali”, “polle”, “cascate” (addirittura!): i turisti accorrono a frotte, ci fanno il bagno. Io, ogni tanto, ci accompagnavo di malavoglia mio padre a lavare la macchina, alla Risiata o Desiata che dir si voglia (chiederò lumi sulla corretta dizione e sull’etimologia del nome a qualche amico versiliese) …

Ma più gustoso è l’aneddoto dell’anguilla, che mio padre ci raccontava e che ho ricostruito nel dettaglio grazie alle precisazioni del suo amico Daniele. Dunque lungo il fiume vi erano delle centraline che alimentavano la corrente elettrica: l’acqua era guidata in canaline apposite e mi dicono che a Cardoso ci sono i resti di una di esse, impiantata giusto cento anni fa. Nel borgo dove viveva, la famiglia di mio padre e quelle del vicinato avevano realizzato una centralina a uso proprio, sfruttando la corrente dell’acqua. “Ogni tanto” - ricordava mio padre – “le lampadine di casa diventavano più fioche, o la luce andava a intermittenza: era perché un qualche ostacolo, rappresentato spesso da un’anguilla, si era infilata nella canalina e ostruiva il passaggio dell’acqua. E toccava sempre a me, che ero il più piccolo, andare a disincastrare l’anguilla!”

Drammatico, invece, è il ricordo di un compleanno di mio padre, il 19 giugno 1996, quando l’alluvione colpì l’Alta Versilia (e parte della Garfagnana): per chi non la conosce, basta cercare su Internet, o leggere i libri scritto al riguardo. Le immagini che si vedono sono di profondo impatto emotivo, ma fu ancor peggiore vivere questo evento in prima persona, perdere conoscenti e amici nel disastro, e vedere le case invase dal fango e dai detriti. E pensare che avrebbe dovuto essere un giorno di festa, per il compleanno appunto, e perché era una serena giornata di inizio estate, almeno per chi di noi era nella piana! Invece, in poche ore, il quadro mutò completamente. Ci ricordo a tavola, in silenzio, mentre mio padre raccontava i particolari tremendi dei danni alle persone e alle cose; infatti lui era salito sui luoghi dell’alluvione fra i primissimi, a bordo di un elicottero, per mettere in sicurezza le linee telefoniche, e tentare di ripristinare le comunicazioni. Da anni cerco il video di un servizio televisivo, di una rete locale, che lo ritrae mentre balza giù dall’elicottero allo Stadio Buon Riposo: spero, un giorno, di trovarlo. Cardoso spazzata via, Mario che aveva trasformato la chiesa in una struttura attiva ventiquattr’ore al giorno per i bisognosi, che avevano perso tutto; la taverna e il giardino di Michele e Francesco pieni d’acqua e fango; mio padre che tira un filo per creare un telefono di fortuna dove mezza Pontestrada possa, da casa Morabito, avvertire amici e parenti, rassicurare e informarsi. Aldo Giannoni che resta per ore appollaiato su un cancello, in preda alle acque. Mai, come in quei giorni, il fiume mi, ci ha messo paura. Festeggiare, tre mesi dopo, il ritorno alla normalità con una cena e salire ora, dopo tanti anni, a Cardoso – come ho fatto quest’autunno – e vedere che il paese è stato ricostruito, la vita è ripresa, gli argini sono in sicurezza e l’acqua è chiara, mi riconcilia col nostro Fiume…con la lettera maiuscola, perché non è “Sua Maestà il Po” ma per noi Versiliesi è, appunto, “il Fiume”.

Così mi è sembrato bello dedicargli un titolo per questa edizione, e questi ricordi, mentre gli autori che leggerete hanno celebrato e raccontato i loro corsi d’acqua.

Buona lettura.

EDIZIONE 2020: “IL TELEFONO”

Quando mio fratello e io eravamo ragazzi, spesso ci sentivamo dire: “Fortuna che il tuo babbo lavora alla SIP, così non pagate il telefono!”

Beh, si sbagliavano, lo pagavamo, eccome! Tanto che una mattina il telefono smise di funzionare e noi avvertimmo subito mio padre quando tornò a pranzo: ci disse tranquillamente che lo aveva staccato lui, visto l’ammontare dell’ultima bolletta. Questo è uno dei tanti aneddoti che potrei scrivere sul rapporto tra mio padre e il telefono. Si arrese al primo cellulare e per anni lui e mia madre ne condivisero l’uso. Penso alla famiglia che mi sono costruita: 4 persone, 5 cellulari (uno è aziendale, puoi non averlo?) e linea fissa a casa: un altro mondo.

Quando eravamo piccoli c’era, appunto, la SIP, adesso non è rimasto neanche il nome, ma sono nate una decina di compagnie telefoniche, e giù a districarsi fra le offerte degli operatori alla ricerca della più conveniente.

Una volta ci dettavamo i compiti per telefono, oggi si mandano le foto su whattsapp. Una volta strillavi a un familiare perché era il tuo turno; oggi ti chiudi in camera col tuo smartphone. Una volta ti insegnavano a rispondere: “Pronto, chi parla?”; oggi vedi il numero sul display e grugnisci: “Ohhh! Dimmi!” Una volta sapevi tutti i numeri di telefono dei tuoi compagni; oggi, per grazia ricevuta, ricordi a malapena il tuo.

È il cambiamento, il progresso, che come tutte le medaglie ha due facce. Non demonizziamo il telefono perché “i ragazzi ci stanno sempre attaccati”, insegniamo loro piuttosto a usarlo nel modo corretto.

E non dimentichiamo quello che abbiamo appena trascorso nel 2020, l’anno della pandemia, dove il telefono è stato l’unico modo per parlare con i tuoi affetti e vedere le persone che ami. Consideriamo il telefono come mezzo di comunicazione, non come modo per isolarsi, perché così non è. Ogni volta che cadiamo in questo errore, tradiamo lo spirito con il quale fu inventato.

I racconti dell’antologia, in questa edizione, ci ricordano il passato e il presente del telefono: facciamone tesoro.

Buona lettura!

DALL’INTRODUZIONE DI FRANCESCA GIOVANNETTI

EDIZIONE 2019: “SETTEMBRE”

Il tema di questa edizione è Settembre e adesso vi spiego il perché.

Settembre era il mese preferito di mio padre. La nostra famiglia ha vissuto in un territorio turistico e solo chi è nato in un posto simile può capire la radicale trasformazione di paesaggio umano e urbano che avviene in estate. Chi nasce e cresce vicino al mare assiste ogni anno a una piccola rivoluzione. Gli abitanti triplicano, i locali aprono, le “seconde case”, di chi ha la fortuna da possederle, prendono vita.

Inizia la festa per i turisti, finisce per chi ci vive tutto l’anno. Strade invase da ciclisti improvvisati, mamme che trasportano in bicicletta una o più creature che agitano secchiello e paletta, neanche fosse quella di un vigile urbano…automobilisti che non sanno quale strade prendere, rinascita di sensi unici e ztl, conseguente imprecazione dell’autoctono che dopo nove mesi di calma piatta si è dimenticato tutto.

Alla debole tolleranza di tale metamorfosi, che mio padre sentiva e descriveva come girone infernale, si aggiungeva un altro fastidioso particolare : il caldo. Sebbene non torrido come quello a cui ci siamo dovuti abituare negli ultimi anni, le estate erano abbastanza roventi. E mio padre odiava il caldo. Una delle sue frasi preferite era : “se ho freddo mi copro, se ho caldo la pelle non me la posso strappare”. Una logica invidiabile.

Così quando arrivava il mese di settembre era come se si riconciliasse con la sua terra. Gli “invasori” rientravano nelle loro città e il mare, la spiaggia, le pinete e i viali tornavano ai legittimi proprietari. Le temperature calavano, la sera rinfrescava e mio padre era felice. Prendeva le ferie, rigorosamente quindici giorni, proprio a settembre, per andare al mare e poterne godere senza folla.

I colleghi di lavoro lo adoravano perché era una persona in meno con cui spartire i giorni di agosto, che tutti anelavano ad accaparrarsi.

Ma settembre era solo suo. Ricaricava le pile in una sorta di capodanno personale.

Noi figli non condividevamo proprio ogni aspetto della sua contentezza. Per noi ragazzi era la fine del divertimento e l’inizio di un altro anno scolastico, che sarebbe stato sicuramente più impegnativo del precedente. Era curioso imparare quanto potessero essere diversi i punti di vista. Lo abbiamo compreso solo più tardi, ai tempi dell’università, quando non esistevano più i tre mesi di vacanza e studiare con trenta gradi era un’impresa, quindi attendevamo anche noi settembre con meno riluttanza.

Quando io e mio fratello siamo cresciuti, i nostri genitori partivano per le loro vacanze solo a settembre. Il “mantra” era : c’è meno confusione, niente famiglie con bambini urlanti, perché la scuola è cominciata, e …si spende meno! E al rientro era già programmata la vendemmia del mese successivo, altro appuntamento fisso.

Mio padre è nato in giugno e ci ha lasciato in marzo e lì cadono i giorni nei quali il dolore si rinnova; ma settembre è diverso, perché è mescolato con una nostalgia più dolce, perché rivediamo il suo sorriso e viene da dire : “ Sei contento eh? Settembre è arrivato…”

DALL’INTRODUZIONE DI FRANCESCA GIOVANNETTI

EDIZIONE 2018: “LA CASA”

C’è un album del mio cantastorie preferito, Francesco Guccini, che è uscito il 1 luglio 1972: io sono nato due giorni dopo. Mi è sempre piaciuto pensare che questa vicinanza non sia dovuta al caso.

Il testo della canzone che dà il titolo all'album, “Radici”, racconta del rapporto viscerale e antico dell'autore con il suo focolare domestico, un mulino sull'Appennino tosco-emiliano: è lo stesso legame, profondo e intimo, che io ho con la nostra casa in Versilia.

 Per questo, di tutti i titoli dell'antologia, questo è quello che sento più mio, e mi ha fatto un grande regalo mia sorella Chicca quando lo ha proposto.

 E per questo, anziché un’introduzione classica, vorrei raccontare anche io di una casa, proprio di quella casa, che appartiene alla mia famiglia da quasi cento anni.

 La foto in copertina è stata scattata ben oltre un lustro fa e in primo piano si staglia la ‘mitica’ nonna Maria, che l'acquistò con il nonno Pietro. Alla fine degli anni Settanta del secolo scorso è stata totalmente ristrutturata, con enormi sacrifici, dai miei genitori, quando io e mia sorella eravamo bambini.

 E' forse perché ho avuto il privilegio di viverne la ri-costruzione e ne conosco ogni minimo aspetto che vi sono così fortemente legato e mi è difficile parlarne senza, ogni volta, commuovermi. Non per le mura, ma per quello che vi ho vissuto, perché quella casa è come il nostro grande cuore.

 Nostro padre e nostra madre vi hanno profuso inenarrabili energie; è il simbolo del loro orgoglio, del loro riscatto, della loro rabbia canalizzata a fin di bene, della loro passione, delle notti trascorse davanti al caminetto a far quadrare i conti, a valutare e ponderare, "per non fare il passo più lungo della gamba".

 E' la casa del loro infinito ed eterno amore, di mia sorella che diventa ragazza prima, bellissima sposa poi, e infine donna e mamma di Lorenzo, il primo nipote, che lì trascorre i suoi primi giorni di vita, con un fiocco azzurro grande quanto una finestra.

 E' la casa con il pennone, fortemente voluto dal babbo, su cui sono state issate, in vari momenti, le bandiere della contrada, dell'Italia e dell'Europa, di "Che" Guevara e della pace.

 E' la casa dei miei studi, di ore infinite con gli amici di sempre a giocare a subbuteo o a guardare le partite della nazionale, del colore del grano che i contadini spargevano sull'aia antistante nei mesi estivi (sembra una pratica antica ma vi assicuro che era 'solo' negli anni Novanta), del profumo del forno per le torte pasquali, dei gerani rossi della mamma sul terrazzo, della fragranza del gelsomino a primavera, della salsedine del mare assaporata sulle braccia d’estate, della brina d'inverno, delle Alpi Apuane che si vedono bene ...dalla finestra del bagno!

E', insomma, un passato che non ritornerà ma che resta, indelebile e intatto, scolpito nella mia anima: "la casa è come un punto di memoria, le tue radici danno la saggezza e proprio questa è forse la risposta, e provi un grande senso di dolcezza."

DALL’INTRODUZIONE DI CARLOALBERTO GIOVANNETTI

EDIZIONE 2017: "A TAVOLA"

Oggi si parla di riscoperta della tavola: corsi di cucina, enogastroturismo, il biologico e la macrobiotica, i foodies, i cuochi stellati - pardon gli chef! - in televisione. Nella mia famiglia la cultura del cibo c’è sempre stata: ogni mattina, come prima cosa, mia nonna chiedeva a mia madre: “Che si fa oggi da mangiare?” Forse perché, avendo vissuto due guerre mondiali (due, non una), e sapendo veramente cosa fosse la fame, aveva bisogno della sicurezza dell’esistenza del pranzo e della cena, possibilmente abbondanti. Per me quindi, non c’è stata alcuna “riscoperta”: sono stato anche fortunato, con un mangiare sempre semplice e genuino e vino sincero. Ma il cibo in casa era un attore non protagonista: chi contava (e conta) era altro, ovvero le persone. Non c'era la televisione in cucina, per scelta dei miei genitori: così a pranzo e a cena - perché noi abbiamo avuto il privilegio di appartenere a quella generazione che si riuniva a tavola, anzi "al tavolino" come si dice in Versilia, con entrambi i genitori due volte al giorno - si parlava del più e del meno, si faceva un resoconto della giornata: scuola, aneddoti, programmi e commenti vari. Quando, nel consueto incontro estivo coi giurati, è saltato fuori questo titolo, lo abbiamo pertanto subito accolto con entusiasmo, forse ripensando a quei tempi. E abbiamo letto con piacere, nella maggior parte dei racconti di chi ha partecipato, la stessa sensazione che al centro stiano le persone e le loro storie, e che il cibo sia un pretesto. Però è un pretesto funzionale alla convivialità, quindi ben venga. Oggi, quando torno in Versilia, chiedo a mia mamma di preparare i piatti della tradizione,  quasi tutti di terra: a parte le arselle, infatti, che sappia io, nonostante molti identifichino la Versilia col mare, e quindi con una cucina basata sui suoi frutti e sul pesce, la cucina locale è realizzata con ingredienti “poveri”. La ‘ntruglia, i matuffi, i tordelli, le torte di riso, putta e dolce, i tagliarini coi fagioli, i ciacci con la ricotta, il biroldo, il vino del Monte di Ripa: in quelle pietanze ritrovo gli odori e i sapori che mi riportano, anche coi sensi, alle chiacchierate, alle discussioni, a tutto il mondo che ho vissuto con mio padre. E parlare a tavola di lui, e anche di quei cibi, ai miei figli o agli amici, è un bel modo per sentirlo vicino e mi ha aiutato, a volte, a esorcizzare la tristezza di non averlo più fisicamente accanto. Pertanto buona lettura. Se potete, gustatela con un pezzetto di formaggio, ricordando mio padre: uno qualsiasi, visto che li adorava tutti.

Carloalberto Giovannetti

“Edizione 2016: "in bicicletta"

La quinta “tappa”, per restare in tema, del Premio ci porta, grazie alla creatività degli autori e alla protagonista del titolo, la bicicletta appunto, in diversi spazi e luoghi. Mio padre invece ha usato la bici quasi sempre in Versilia, la terra della nostra famiglia, e con molta più intensità negli ultimi anni, ovvero da quando era in pensione. Non perché fosse un mezzo ecologico, non per tenersi in forma: semplicemente perché gli piaceva. Conoscendolo, avrà apprezzato il vento in faccia durante i suoi giri e il poter salutare chi incontrava senza i rumori di un motore sottofondo. E probabilmente anche la comodità di parcheggiarla ovunque. La scomparsa di mio padre, tanto improvvisa quanto rapida, ha fatto sì che i commenti di tanti che lo conoscevano fossero proprio incentrati su questo mezzo: “Eh, me lo ricordo, che veniva giù in bicicletta” è una frase che io e i miei famigliari abbiamo sentito spesso in questi anni. Così, coi giurati, abbiamo pensato che un titolo per un’edizione potesse esserle riservato: solo che non abbiamo trovato alcuna foto di mio padre sui pedali, forse perché nessuno pensa mai a farsele; ad ogni modo, la bicicletta in questione appare nella copertina di questa antologia: dopo anni di abbandono, nel grigio giorno dei Morti di novembre, mentre mia madre mi diceva di non sporcarmi il vestito, l’ho recuperata da una rimessa, dove giaceva inutilizzata da tempo, ovviamente sgonfia, impolverata e sporca ma, soprattutto, in condizioni pietose dal punto di vista meccanico. Come si vede, è una elegante bici da passeggio ma ha i freni a bacchetta, dettaglio non da poco per stabilire il coefficiente di difficoltà per rimetterla in sesto: il racconto di come ci sono riuscito, se scritto, avrebbe potuto partecipare al concorso, ma non credo che sarebbe stato pubblicato: comunque, nel corso di quest’operazione di recupero ho incontrato chi mi ha illuso (“te la rimetto a posto io”; e poi niente), chi deluso (“non me la porti nemmeno”), chi incitato (“penso che al babbo avrebbe fatto piacere”). Alla fine, dopo mesi di vani tentativi, un signore che non ho conosciuto, ma a cui vorrei esprimere un ringraziamento, si è appassionato così tanto alla bici che, in un giorno e una notte, ha compiuto il miracolo. E me l’ha restituita, tirata a lucido e pronta, in una domenica di primavera fiorentina. Così oggi, seppur centellinandola come certi vini pregiati, la bicicletta di mio padre la uso, con malcelato orgoglio, io; e ogni volta che vi salgo lo vedo che mi sorride: lui con grande serenità, e io con tanta nostalgia. Buona lettura a tutti.
— Carloalberto Giovannetti

SEZIONE PREMIO GIOVANNETTI

Primo classificato “Il mio momento di gloria” di Elisabetta Amoroso

Il racconto è narrato in prima persona da Marcin, un bambino di 9 anni nato in Polonia e adottato insieme al fratello Kamil. Le prime esperienze con la bicicletta risalgono ai tempi dell’orfanotrofio e sono legate soprattutto a una rovinosa caduta che lo ha costretto all’ospedale. Arrivati in Italia lui e il fratello distruggono in tre giorni le prime fatiscenti biciclette vengono immediatamenterimpiazzate da due biciclette “serie”. Marcin scopre il mondo con la sua bicicletta accompagnato dal fratello e dalla sorellina fino a quando arriva come regalo per la Prima Comunione una stupenda mountain bike. Con quella decide di partecipare al una gara a cronometro. La bici è la sua passione e un suo grande rammarico è non poter praticare ciclismo come sport ma purtroppo non c’è nessuna società vicino a dove abita. Ma la cronoscalata è l’occasione giusta per mostrare a tutti la sua tenacia. Al momento della premiazione il panico sale. Marcin non sente chiamare il suo nome e teme di non essersi qualificato. Nonostante infatti i discorsi usuali su “L’importante è partecipare, non vincere”, Marcin ha le idee ben chiare: meglio vincere che perdere, storia chiusa. E finalmente arriva il suo momento di gloria. Marcin è primo, il piccolo piange dalla gioia stringendo al sua coppa, la più grande di tutte.

La scrittura è toccante e divertente allo stesso tempo. L’autrice descrive in  maniera eccellenteil mondo visto dagli occhi di un bambino. Le figure dei genitori adottivi, prima estranei di cui ha timore che diventano naturalmente “ mamma e papà”, la sorellina “che rompe ancora ancora prima di venire al mondo”, la mamma, che adora ma che è una “rompi” che strilla quando lui e i fratelli combinano guai ed è fissata con le pulizie di casa e le fotografie. La sua vita è cambiata radicalmente, da un orfanotrofio pieno di lettini a una famiglia dove quando c’è una cosa importante “ bisogna farla sempre tutti insieme”, ma una cosa è rimasta uguale: la voglia di andare in bicicletta in maniera spericolata.

Secondo classificato “In sella” di Sabrina Bordone

Il protagonista di questo racconto è Enrico, ragazzo e poi uomo di una forza eccezionale. Enrico ha un temperamento irrequieto, si sente fatto per il mondo, vuole viaggiare, vivere e scoprire le meraviglie della vita. Si imbarca su diverse navi militari e trova finalmente la sua dimensione come elettricista torpediniere su una nave impegnata a contrastare la pirateria nel Mar Rosso. La morte prematura del fratello lo costringe a rientrare a Roma, per dare sostegno alla famiglia. Inizia a lavorare come fuochista alle ferrovie dello stato e nel tempo libero si dedica alle sue passioni: scrive, legge, dipinge, corre in bicicletta, costruisce piccoli oggetti in legno. Fino al giorno di un terribile incidente sul lavoro a causa del quale perde una gamba. Ma la forza e la voglia di vivere è inarrestabile. La bicicletta diventa il suo mezzo preferito perché può abbandonare la stampella e sentirsi uguale agli altri, con le stesse possibilità e la stessa libertà. E proprio in questo racconto lo vediamo sfrecciare con la bicicletta sulle gelide strade della Lapponia dopo aver visitato tutta l’Europa. La positività e l’ottimismo verso il futuro e il prossimo non vengono mai meno, nonostante la menomazione e nonostante l’amaro rendersi conto che nella vita si possono incontrare persone all’apparenza benevole ma che nascondono un’indole malvagia, come il compagno di pedalata che sembra affabile e perbene ma finisce per derubarlo dei suoi pochi risparmi.

Terzo classificato “Ma dove vai bellezza in bicicletta” di Viola Giannelli

La storia di svolge durante il ventennio fascista. Angelina e Bettina sono due sorelle che provengono da una famiglia contadina, in cui i ritmi delle stagioni e delle giornate sono cadenzati dal lavoro nei campi e con gli animali. Angelina è la figlia maggiore, bella senza esserne consapevole, e svolge tutte le incombenze che le danno i genitori in sella alla sua bicicletta, trascinandosi dietro una Bettina che cresce sempre di più, fino a quando è quasi impossibile portarla sulla vecchia bici ormai malandata. Con la bici si va al mulino, a scuola, ovunque ci sia bisogno e qualunque sia il tempo, compreso freddo e pioggia. Sulle strade del paese Angelina si innamora di Nicola, ricambiata, ma il suo sogno viene spezzato dall’incontro con Bernardo, figlio del capò del paese. Bernardo la violenta e Angelina,  traumatizzata, non parla quasi più ma recita solo le ricette che le ha insegnato la madre. Nicola sa tutto e vendica il suo amore, uccide Bernardo e lo scarica al padre di Angelina. Angelina, nel delirio del trauma, fa a pezzi il corpo che verrà servito come pietanza principale alla festa del paese. Ma la scomparsa di Bernardo si fa notare e Nicola, sospettato di averlo ucciso, deve fuggire. Il tempo passa, portando via la guerra e il fascismo, ma non il trauma di Angelina. Troppo anni dopo Nicola ritorna, Angelina lo riconosce e finalmente possono sposarsi. Anche qui corre attraverso tutto il racconto la bicicletta. Quella di Angelina, quelle della madre e del padre, la tanto desiderata bicicletta nuova di Bettina, alla quale darà anche un nome, Doris.

SEZIONE AMICI DEL PREMIO GIOVANNETTI

Primo classificato “Raggi di sole” di Antonio Viciani.

Molto ben scritto, scorrevole e originale il racconto del viaggio di una bicicletta che passa di mano in mano e chiude un cerchio che parte e arriva in Germania. La bicicletta è un regalo per Hans, un bambino che aspetta con ansia il ritorno dalla guerra del padre, infermiere. Alla sua prima uscita in bicicletta incontra un soldato francese scappato da un campo di prigionia. Con immensa generosità e fiducia, Hans regala la sua bici al soldato che lo implora di aiutarlo a tornare dalla figlia di sei anni. Francois, così si chiama il francese, raggiunge casa inforcando la bici, che getta a malincuore sul ciglio della strada quando un aereo inglese che sta precipitando richiama l’attenzione vicino a lui. Così Ernest, il pilota britannico che deve incontrare la resistenza italiana, mentre fugge dal suo aereo caduto, scorge la bici abbandonata e la usa per raggiungere l’Italia e consegnare documenti segreti. Arriva a Sanremo, compie la sua missione e consegna i documenti al grande ciclista Gino Bartali che, pedalata dopo pedalata, raggiunge Milano per compiere la sua missione. La stanchezza e l’adrenalina fanno in modo che Gino dimentichi la sua bici in strada, dove viene raccolta da un infermiere tedesco che vuole tornare in Germania dalla sua famiglia e da suo figlio Hans. Così il cerchio si chiude.

Secondo classificato “In fuga” di Andrea Moretti

Marco è un ragazzino di undici anni con un padre “ingombrante”, che è stato per anni un campione del ciclismo. Marco non ha molti ricordi del padre, sempre lontano e impegnato, del quale ricorda però la grande passione per le due ruote, che il padre spera di trasmettere al figlio. Marco però non ama correre in bicicletta e questo lo porta a sentire una grossa distanza dal padre. Alla morte della madre, lui e il padre si trasferiscono in città e il padre abbandona il ciclismo per diventare giornalista sportivo. Marco corre con la bmx che gli ha regalato la madre mentre in garage prende polvere una prestigiosa bici da corsa, regalo del padre. Nella nuova scuola rimane vittima di un episodio di bullismo che lo costringe a affrontare una sfida in bicicletta in una discarica, affrontando un compagno grande e grosso. Inaspettatamente Marco vince la sfida, il suo avversario infatti è caduto rovinosamente e mentre i compagni del bullo se la danno a gambe, Marco cerca il suo avversario. Lo trova in difficoltà e lo aiuta a risalire dal pendio dal quale è precipitato usando la sua bici come una scala. Dopo una giornata così movimentata giunge a casa in ritardo e vede il padre preoccupatissimo ad aspettarlo. In quel momento è come se si colmasse la distanza coltivata in tanti anni di silenzio. Marco confessa a suo padre di non avere il minimo amore per la bicicletta, il padre sorride e lo abbraccia.

Terzo classificato “Il regno di Alla” di Biagio Bellitto

Il protagonista del racconto è un extracomunitario che vive e lavora in provincia di Ferrara. Vorrebbe avere una domenica uguale a quella di tutti gli altri, passeggiando senza pensieri in città ma una serie di eventi lo porta a trascorre una giornata terribile. Nel tragitto verso il centro, in bicicletta, incontra un cane, Attilio, che senza un motivo apparente lo segue ossessivamente fino in centro. Il protagonista fa di tutto per ignorarlo; vuole trascorrere una domenica normale, entrare in un bar a bere un caffè. Ma l’incanto è rotto. Una suora comincia a sbraitare. Il cane le ha fatto la pipì sul vestito, quindi entra nel bar infuriata per sapere a chi appartiene. Il nostro protagonista è in affanno, si sente sopraffatto, aggredito, fuori posto. Nega che il cane sia suo e, nel panico, anche che la bici sia sua. Quando crede di aver guadagnato l’uscita cerca di scappare in bicicletta, ma non si ricorda di averla chiusa con il lucchetto e questo fa in modo che la suora lo riesca a raggiungere per stampargli un gran ceffone. Mortificato e disperato va a casa, e il cane non molla. Lo aspetta dall’altro lato della strada. Dopo essersi addormentato sul divano fa un sogno quasi reale: la vecchia padrona di casa, Alla, e il padrone di Attilio. Lei è fuori di sé dalla rabbia, lui è piagnucolante e in cerca dell’animale smarrito. Le parole che gli vomitano addosso sono i suoi pensieri, il suo stato d’animo. Lui è un extra comunitario, solo, scappato dalla fame per ritrovarsi a lavorare per due soldi dati quasi per pietà, schiavo della società che avrebbe dovuto salvarlo. Il risveglio è scioccante e amaro. Quello che nel sogno si è sentito dire non è altro che ciò che lui sente. Ma non è finita. Il cane è ancora lì, imperterrito. Quasi in uno stato di lucida follia, per eliminare per sempre questo persecutore, il nostro protagonista, ingannando il cane Attilio, lo farà schiacciare da un camion della spazzatura.

Terzo classificato “L’assenza della paura di cadere” di Paolo Arnolfo

Naldo Ambrosi è un uomo che ha vissuto la guerra. Ha lasciato il suo paese, la sua innamorata, con la quale però non si è impegnato seriamente, i suoi genitori. Alla fine della guerra, al contrario di tutti, non è tornato a casa ma ha deciso di rimanere in Russia lavorando come fabbro. I suoi genitori sono morti, non si è impegnato al momento della sua partenza con la fidanzata, quindi sa che lei probabilmente non sta aspettando il suo ritorno.

Ormai anziano decide di ritornare in Italia, al suo paese natale, dove però viene indicato come “lo straniero”. La sua vita scorre lenta; Mirella, la fidanzata, si è sposata e vive serena circondata da marito, figli e nipoti.

Naldo si sposta in bicicletta, percorre le strade che una volta gli erano familiari, fino a che una brutta caduta lo spinge a mettere da parte la bicicletta. I legami col paese, che già erano deboli, diventano quasi inesistenti; la bicicletta era l’unico legame con il mondo ma Naldo adesso ne ha paura.

Un giorno, tornato “alla vita” con l’iniziativa di raccontare agli alunni delle scuole la sua esperienza di guerra, prende il coraggio di andare da Mirella, inforcando senza più timore la bicicletta. Mirella e Naldo da allora si incontrano tutti i giorni, dando il via anche ai pettegolezzi tipici di un paese. Ma Naldo non ha più paura, è l’assenza della paura di cadere che lo spinge tutti i giorno da Mirella…fino all’ultimo viaggio in bicicletta, di sola andata, verso Mirella. Dopo un’ultima caduta il cuore di Naldo si ferma, mano nella mano con la sua fidanzata di un tempo.


Edizione 2015 | "Imparare: scuola di vita e vita di scuola"

È capitato, parlando del premio a chi non ha conosciuto mio padre, che mi si chiedesse se fosse stato uno scrittore oppure un maestro o un professore di lettere. Niente di tutto questo: leggeva molto e appuntava i suoi ricordi su un diario; quindi al massimo si sarebbe potuto definire - suppongo - un cronista dei propri eventi familiari. Ma a pensarci bene mio padre è comunque stato - a suo modo - un eccellente insegnante per la sua famiglia e per i suoi amici che ne ricordano ancora oggi i pensieri, gli aneddoti, le opinioni, i commenti. Non aveva potuto studiare per motivi indipendenti dalla sua volontà ma ha cercato di rimediare da autodidatta, imparando sulla propria pelle. Per questo ho deciso che il titolo di questa quarta edizione giocasse sulla parola scuola, cercando un ponte di collegamento fra le sue esperienze e - tramite l’antologia - quelle raccontate dai vari autori che qui pubblichiamo. Ciò che leggerete è il risultato della selezione effettuata dai giurati (loro sí tutti letterati!) ai quali va il ringraziamento piú profondo da parte mia e dei miei familiari: sono loro, con gli amici di mio padre e i partecipanti al concorso, il vero motore di questo premio. Nella copertina, un nonno appena sfiorato viene cosí immaginato da mio figlio Riccardo: per lui (che praticamente ignora il telefono fisso) mio padre - che ha lavorato una vita alla Sip, oggi Telecom, senz’essere arrivato alla telefonia mobile - doveva per forza avere a che fare col cellulare.
— Carloalberto Giovannetti

SEZIONE PREMIO GIOVANNETTI

Primo classificato “Angelina” di Paola Mini

 Il racconto si svolge in un paesino romagnolo, Verrani, negli anni Trenta. Angelina, il nome della bambina protagonista, aspetta con ansia il suo primo giorno di scuola.

Vive con la mamma e la zia che faticano entrambe per tirare avanti. Si accettano le candele regalate dal parroco, si riadattano abiti smessi di bambine più grandi, si mangia modestamente raccogliendo frutti, ma questo non intacca lo spirito giocoso e sorridente della piccola, che poco ha avuto a che fare con il mondo, ancora.

Il primo giorno di scuola è il banco di prova. Il maestro chiede agli alunni di presentarsi, di dire il nome e l’occupazione dei genitori. Tutto fila liscio fino a quando non arriva il turno di Angelina che, completamente spiazzata dalla domanda sul padre, del quale non sa niente, e incalzata dall’insistenza del maestro che chiede il nome e l’occupazione del genitore, scoppia a piangere, canzonata dall’intera classe. Viene in suo aiuto il bidello, che sussurra al maestro che la piccola e figlia di “enne enne”. Il maestro sbuffa, ma il tormento finisce.

All’uscita di scuola la attendono la mamma e la zia e inevitabilmente la prima domanda è : “che significa figlia di “enne enne” ?

Ma la risposta non arriva, si elude abilmente la domanda, si sposta l’attenzione e si torna tutti a casa.

In definitiva questo è ciò che fa ogni madre, in ogni tempo e luogo: protegge suo figlio. Fino a quando non lo ritiene in grado di affrontare la realtà, che non sempre è quella che abbiamo desiderato. Ma tutti i genitori devono fare i conti con il mondo. Per quanto tentiamo di proteggerli arriverà il momento in cui non sarà più possibile girare gli occhi da un’altra parte e bisognerà affrontare ciò che temiamo; compito dei genitori, o forse speranza, è che i figli arrivino a quel momento forti e preparati.

Secondo classificato “Una vita a scuola” di Elisabetta Amoroso

Anche in questo racconto troviamo l’excursus scolastico della protagonista, dall’asilo alle elementari. Lettura piacevole, scorrevole, divertente e pittoresca racchiude le vicende scolastiche che si intrecciano con quelle della vita fuori dalla scuola, quindi l’eterno barcamenarsi fra scuola , casa e figli, fra incontri di formazione, corsi di abilitazione , pannolini e biberon.

Il tutto preannunciato da due genitori, entrambi insegnanti. Decisamente una vita a scuola e una famiglia a scuola.

Terzo classificato “La compagnia dei maestri” di Roberto Vaccari

La voce narrante è un segretario del filosofo Porzio Svetone, vissuto nel I secolo dopo Cristo. Costui accompagna il sapiente in un viaggio in Asia Minore dove la loro prima tappa è la visita al filosofo Artemidoro, descritto come un precursore nello studio dell’interpretazione dei sogni e studioso delle pratiche sessuali in un ‘ottica scientifica.

Una volta giunti,  trovano una grande folla di uomini e donne in fila in attesa di essere ricevuti dal saggio. Stupito , il giovane segretario non si capacita del perché tante persone attendano per un colloquio.

La natura dei colloqui lascia gli ospiti interdetti e imbarazzati. Ciascuno racconta un sogno erotico. Ma Artemidoro non vede in essi significati particolari. Semplicemente raccontare un sogno di tal genere riesce a liberare il paziente da un’angosce che non sa spiegare. Il sesso sognato, secondo Artemidoro” libera gli eccessi della realtà, aiutando i sognatori a desiderare la normalità”.

Svetone è scandalizzato a causa del sentire parlare di sesso in maniera così sfrontata e schietta ma dovrà ricredersi quando Artemidoro offrirà loro una notte di sesso con due schiave.

SEZIONE NUOVI AMICI DEL PREMIO GIOVANNETTI

“La quistione suina” di Silvia Paradisi

 Rosa è una bambina che vive a Ustica. Trascorre i suoi momenti più felici a casa della nonna dove bada agli animali, soprattutto a Ernestino, un maialino al quale è molto affezionata.

Ad Ustica si trovano anche i detenuti di passaggio, al confino in attesa di giudizio: alcuni veri e propri criminali, altri incarcerati per le loro idee.

I detenuti danno vita a una scuola, ma Rosa non è minimamente interessata visto che da grande vorrebbe fare la guardiana di maiali.

 

Tutto cambia però quando, inaspettatamente, l’adorato maialino Ernesto si allontana e si trova in paese: acciuffato dai carabinieri viene consegnata una multa alla nonna, la proprietaria, poiché il maialino aveva transitato abusivamente fuori dalla proprietà.

Tutto questo appare ingiusto a Rosa ma è costretta a pagare , con l’aiuto degli abitanti dell’isola, per riavere indietro Ernestino.

A quel punto le tornano in mente le parole di un carcerato, un uomo buono dai grandi occhi azzurri che Rosa ascoltava di nascosto senza capire: parlava di autorità al servizio dell'ignoranza…

Rosa aveva conosciuto Gramsci ma fino ad allora le sue parole non avevano avuto molto senso. Se fosse stata più istruita avrebbe potuto leggere il verbale e capire quello che stava succedendo, capire che cosa era la legge e non soltanto pagato in silenzio.

E le donne di casa decisero tutte di recarsi alla scuola dei detenuti per imparare a leggere e scrivere, per poter affrontare meglio il mondo e difendersi dalle ingiustizie.

Secondo classificato “Signorsì signora maestra” di Patrizia Martini

 Durante la seconda guerra Mondiale nasce la storia d’amore fra Ferruccio, partigiano, e Luisa, una giovane maestra al suo primo incarico.

Luisa si trova di fronte una classe di bambini cresciuti con la guerra, che le parlano di una compagna morta per mano dei tedeschi perché scambiata per un partigiano. Invece uno degli alunni la provoca, chiedendole di usare il saluto romano, forse avvertendo l’indole antifascista da pochi piccoli gesti.

Con il passare dei mesi Ferruccio confida a Luisa che il suo incarico come partigiano è quello di aiutare gli ebrei a varcare il confine con la Svizzera attraverso i varchi conosciuti dai contrabbandieri.

Una notte, durante una forte nevicata, Ferruccio bussa alle porte della scuola con una famigliada portare in salvo. Luisa a causa della tempesta ha deciso di trascorrere lì la notte. Il maltempo impedisce alla famiglia, che ha un bambino in età scolare e una neonata, di mettersi in cammino subito. Luisa decide di nascondere il bambino alla luce del sole, in classe, tenendolo insieme ai suoi scolari

È una lezione di condivisione e integrazione, è una lezione d’amore.

È una lezione di solidarietà, quando il paese intero si unisce per portare alla famiglia tutto ciò di cui possa aver bisogno per affrontare il viaggio della salvezza.

Ferruccio parte, la famiglia raggiunge la Svizzera e da lì riesce a scappare in America. Dopo poche settimane; Ferruccio perderà la vita in un’imboscata tedesca.

Terzo classificato “Il sarto” di Domenico Romano Mantovani

Durante gli anni 60 il piccolo Giuseppe si trova in un letto di ospedale, malato, paralizzato senza che nessuno riesca a capire che cosa lo abbia ridotto in quello stato. Il bambino è stanco, senza speranza e vorrebbe solo abbandonarsi e dormire ma la voce incessante del suo vicino di letto glielo impedisce: è Antonio, un sarto, che agli occhi del piccolo appare un uomo anziano, che insiste nel tenerlo vigile insegnandogli una poesia del Carducci e costringendolo a ripeterla, continuamente. Antonio ha sentito i medici parlare delle condizioni di Giuseppe, definendolo intontito e attribuendo il suo stato a una malattia che gli ha attaccato i centri nervosi: per questo motivo insiste nel tenere in continuo allenamento la memoria del piccolo, nella speranza che possa recuperare e guarire.

Pianto antico, la poesia del Carducci che Antonio fa imparare a memoria a Giuseppe racchiude tutti i dolori, in primis quello del poeta, poi quello di Antonio, che ha perso un figlio per meningite, per ultimo il dolore di Giuseppe legato a un letto d’ospedale.

Poi accompagnate dalle parole delle poesia di Carducci piano piano le mani del bambino cominciano a muoversi, incontrando quelle di Antonio. È l’inizio della ripresa. Parola dopo parola, verso dopo verso, poesia dopo poesia il rapporto tra Antonio e Giuseppe si fa sempre più forte. Ogni giorno si vedono, ogni giorno recitano poesie. Il bambino cresce, combatte con la sua malattia che lo costringe a camminare con il bastone, l’amore per la poesia lo spinge a diventare un professore. Giuseppe diventa adulto, la malattia si ripresenta, peggiorando le sue condizioni; quando gli viene chiesto di parlare al funerale di Antonio quali altre parole se non “Pianto Antico “ potrebbero essere più adatte?


EDIZIONE 2014 | "LEGàmi"

Il titolo dell’edizione di quest’anno è stato scelto da mia sorella Francesca - per tutti Chicca - con l’intento di far narrare agli autori, nei loro racconti, valori e sentimenti. La ringrazio per aver saputo cosí efficacemente sintetizzare una serie di concetti che mi ronzavano in testa. Di primo acchito, pensando ai legami nella nostra famiglia, mi vengono in mente le persone care che non ci sono piú. Facendo però una riflessione piú attenta mi rendo conto come si possano instaurare legami anche con un territorio, un ricordo, un sogno, un amico. Persino con un animale, un odore o una canzone. E con mille altre cose ancora. L’antologia raccoglie una ventina di storie, solo una minima parte di quelle che ci sono giunte (circa duecentocinquanta) da autori - italiani e non - di ogni parte del nostro paese e dall’estero. L’attesa dell’arrivo dei testi, la loro lettura, il momento conviviale della relativa disamina con gli amici giurati, le critiche e le valutazioni condivise o meno, addirittura i rapporti umani che in questi tre anni si sono formati con alcuni degli stessi scrittori rappresentano ormai per me un piacevole rituale di cui non voglio piú fare a meno: ogni volta mi riportano al mio babbo (provo a immaginarmi quali potrebbero essere i suoi commenti ai vari elaborati) e mi dànno il pretesto per compiere un volo nel passato, ricordando momenti vissuti insieme a lui. Sono certo che avrebbe letto questi racconti con piacere - occhi fermi e sereni, occhiali da lettura abbassati sul naso - magari nel salotto di casa nostra, sicuramente in silenzio. Provate, se potete, a fare altrettanto. Buona lettura.
— Carloalberto Giovannetti

Primo classificato “Trattative di pace” di Roberto Vaccari

“Nonno, perché gli anziani restano tanto aggrappati alla vita?”. Colto impreparato il nonno promette di trovare una risposta, iniziando la sua trattativa, consapevole che la nipote non mollerà la presa.

E mentre l’attenzione è focalizzata sulla gatta moribonda, muore improvvisamente la mamma del protagonista. Per volontà della defunta non ci sarà il funerale tradizionale ma un incontro con tutte le persone che l’hanno conosciuta.

Sofia, l’anziana madre, era stata una staffetta partigiana, conosciuta da tutti. La casa si riempie di gente, arriva addirittura una scolaresca. Tra volti più o meno noti il protagonista riconosce a malapena un viso; è Mariangela, si sono incontrati, e quasi amati, anni addietro: lui in partenza pe il servizio militare, lei in procinto di partecipare a una marcia per la pace.

Le loro strade si sono divise e, nonostante la vicinanza - Mariangela infatti è rimasta sempre in contatto con la madre del protagonista -, non si sono più incontrate.

Ma non è mai troppo tardi e i due cominciano a frequentarsi e ad amarsi.

La nipote ritorna dunque all’attacco, con la domanda iniziale: il nonno è innamorato…com’è che gli anziani rimangono tanto attaccati alla vita?

E Il nonno, forse, ha trovato la risposta.

Secondo classificato “Foto di gruppo” di Elisabetta Amoroso

Attraverso la foto di gruppo scattata al matrimonio dei genitori l’autrice descrive con un fluire armonioso di sentimenti e aneddoti i componenti della sua famiglia.

C’è il nonno materno all’apparenza burbero ma pieno d’amore e quello paterno, marinaio in pensione, che ha viaggiato per tutto il mondo e racconta ai nipoti bellissime storie. La nonna paterna, forse un po’ gelosa dell’ultimogenito ma adorante dei nipoti dei quali, come tutte le nonne, si vanta e …rimpinza di cioccolata. Le zie, le schiere di cugini (in foto tutti angelicamente in posa, ma sotto sotto qualcuno un po’ pestifero), lo zio che ha passato anni a fare il medico condotto usando le cure più pratiche ed efficaci, come quelle prescritte alla nostra autrice il giorno del matrimonio (“due gocce e un paio di schiaffoni” per superare una comprensibile crisi di panico che attanaglia quasi tutte le spose). Infine, il racconto delle splendide giornate di vacanza passate sull’isola Palmaria, dove non si poteva attraccare, e che questa consapevolezza di zona proibita rendeva ancora più bella, il pranzo, l’attesa per il bagno rigorosamente rispettata.

Sale da queste pagine un senso di famiglia che ti culla, ti circonda, non ti abbandona. Un amore palpabile, che lascia le tracce vive e vere di chi ama ed è amato perché questo è il vero, unico e solo significato di famiglia: l’amore

Terzo classificato “Mal tempo” di Francesco Banfi

Un giovane universitario attanagliato dall’insofferenza soffre il confronto con la sorella, che lo coinvolge nel volontariato di un centro di recupero col risultato di aumentare ancora di più la sua inquietudine. Circondato da ex eroinomani problematici il protagonista si sente sempre più affondare: e il ricordo di una settimana di vacanza in un non ben precisato villaggio olandese suscita solo sentimenti di incredulità: quasi che tutto fosse finto, o perlomeno finto per i suoi occhi ai quali pare di vedere tutto il paesaggio come attraverso una cascata, indefinito, evanescente. Il ritorno a casa è ancor peggio, grigio, stanco, cattivo, ostile.

Una passeggiata con un amico, maledicendo il freddo, non aiuta lo stato d’animo del protagonista perchè l’amico ha deciso di partire: lo shock è ben reso ma le sorprese non sono finite. L’amico non ha una meta, ma solo il desiderio di uscire dal grigiore, di trovare una destino che non sia già segnato dalla città e dalle persone che conosce. La reazione del protagonista è furiosa: non capisce, ma il lettore comprende -  che è entrato nel tessuto dei suoi pensieri - sa che mente. Quel legame insano che tiene attaccati a un modo di vivere che detestiamo, che ci rende peggiori di quanto non siamo, può essere spezzato, è vero, ma non da tutti.

LA NAZIONE Martedì 4 febbraio 2014

Weekend Versilia


Edizione 2013 | "in viaggio"

Il titolo di questa seconda edizione del Premio Arnaldo Giovannetti è frutto di un’idea di mia moglie Laura, che ringrazio. Mentre, proprio in viaggio, parlavamo del possibile tema del concorso, lei mi ha ricordato quanto mio padre amasse viaggiare e dicesse di sentirsi già in partenza mentre organizzava i tragitti delle sue vacanze, gli itinerari dei luoghi che avrebbe visitato e dei posti che progettava di vedere. Ho colto il suggerimento e ne ho approfittato per ricordare, perché “in viaggio” con mio padre siamo stati naturalmente anche noi, la sua famiglia, in tante occasioni. Mi è tornato in mente quando lui, che non amava il calcio (mentre io ne sono appassionato), accettò per amor filiale di portarmi a vedere una partita della mia squadra del cuore: una sciatta amichevole estiva. Ma per me - che vedevo per la prima volta dal vivo i miei beniamini - fu come assistere a una finale dei mondiali, forse anche di piú. Rivivo con nitidezza alcuni particolari di quella calda serata d’agosto “in trasferta”, compreso il “grazie” (che biascicai da adolescente introverso quando, disfatto dall’euforia, rientrammo a notte fonda) al quale rispose semplicemente con uno “stai tranquillo” mentre mi assopivo in macchina: la stessa frase che ora pronuncio quando porto a letto i miei figli la sera.
— Carloalberto Giovannetti

Primo classificato “Chi sono io?” di Roberto Morgese

Nonostante la difficoltà oggettiva di scegliere il migliore elaborato data la quantità e qualità degli scritti che sono pervenuti per questa edizione, cosa di cui siamo enormemente grati, il racconto in oggetto racchiude la sfera del viaggio interiore e fisico in maniera estremamente originale.

L’ambientazione nell’era preistorica è la prima nota di interesse: gli scienziati hanno dedotto ciò che “poteva essere”, mentre noi ce lo troviamo limpidamente scritto e viviamo nel neolitico accanto a questo uomo che affronta con coraggio e consapevolezza il suo viaggio.

Cacciato dalla propria tribù per aver empiamente intagliato il legno dell’albero sacro (difficile non notare l’allusione biblica del peccato di Eva), costui parte alla ricerca di un nuovo sé. Gli viene tolto il nome, deve cercarne uno nuovo, dovrà cercarlo da solo, sulla montagna, nella speranza che la sua espiazione lo porti a una nuova rinascita. Ma durante il viaggio, insieme alla montagna che viene ascoltata con devozione e speranza, mai lo abbandona la sua grande passione: intagliare. E continua a farlo lasciando parti di sé sul suo cammino, forse nellasperanza di ritrovare il suo villaggio, come un preistorico Pollicino. Ma l’unica scultura che ha valore, dalla quale non si separerà mai è la statuetta intagliata dall’albero sacro, che raffigura la madre terra. E’ a causa di quella cheè stato cacciato.

Ma l’uomo primitivo non è poi così diverso dall’uomo moderno. L’invidia serpeggia fra chi ha visto l’empia scultura lignea e la vuole ad ogni costo…ed è disposto a uccidere.

Muore così, a tradimento, colui che disperatamente è alla ricerca del suo nuovo destino e continua domandarsi: “chi sono io?”.

Allora la terra, quella madre terra che ha voluto intagliare e che è stata oggetto di brama, quella terralo accoglierà, preservandolo per millenni fino al suo risveglio circondato. Egli diventerà la Storia e sentirà la risposta alla sua domanda: “Chi sono io?” “Otzi” risponderanno, la mummia del ghiaccio.

Un viaggio dell’anima di un uomo che ha osato, rischiato, urlato il suo bisogno di essere, che trova una risposta dopo un tempo infinito. E la risposta gli verrà data grazie a quella madre terra venerata che gli concederà di sopravvivere per l’eternità.

Secondo classificato "Sciabordìo" di Lorenzo Marone

Sciabordìo :già il titolo ci porta a udire i flutti di una imbarcazione , una imbarcazione che naviga trascinata dalla volontà del mare e non dalla propria.

Estremamente attuale, il viaggio della speranza raccontato attraverso gli occhi di un bambino, Zalo, in balia di una fragile speranza per un miglior vivere.

L’innocenza di Zalo permea il racconto; non si rende conto, da bambino qual è, della disperata gravità della condizione del suo barcone, carico di uomini e donne, abbandonato a se stesso da uomini senza scrupoli.

Non si rende conto di aver fissato per giorni un uomo morto di stenti, non si rende conto del padre che si spegnea poco poco mentre usa le ultime forze rimastegli per non abbandonare il suo bambino.

Zalo diventa grande sul barcone, dopo aver ammirato le stelle, così tante da provare meraviglia, dopo aver esultato per aver avvistato un delfino, Zalo vede la morte, un cadavere buttato in mare e vede la meraviglia della vita, un bambino che viene alla luce, quasi a testimoniare che la speranza non si è spenta del tutto; ma non ha più forze, Zalo, quando viene tratto in salvo; ormai privo di sensi da ore non ha visto il corpo del padre e della giovane donna appena diventata madre scivolare negli abissi profondi.

Toccante e devastante, il racconto dal punto di vista di chi spera di essere accolto. Viviamo un mondo che sembra ormai dimenticare cosa sia la pietà umana; “Sciabordìo” è la realtà di migliaia di persone che sperano, che viaggiano, che troppo spesso incontrano la morte.

Terzo classificato "Il Viaggio" di Maria Cristina Carbon

Alberto e Chiarella sono innamorati, hanno trascorso tutta la vita insieme, non hanno avuto figli, ma l’amore reciproco è stata la loro benedizione. Chiarella è malata, la sua mente l’ha tradita, facendole dimenticare chi è lei, chi è Alberto. La sua mente viaggia in labirinti solitari dove Alberto disperatamente la insegue, tenace, ogni giorno, nella speranza di ritrovare, anche se per un solo attimo, la sua Chiarella.

Usa qualsiasi mezzo, Alberto, per poterla incontrare, e ci riesce con le fotografie di un viaggio, un viaggio speciale, il viaggio che festeggia i venticinque anni d’amore; Chiarella riconosce subito le fotografie e parla con Alberto, è di nuovo lei “Qui siamo in Israele…questa è Cana…”. E Alberto è felice, è un pomeriggio buono. Ma il vortice della malattia lascia poco spazio alle tante parole che i vecchi sposi desiderano dirsi, il vortice la inghiotte di nuovo trascinandola in terre solitarie, gli occhi si fanno vuoti e Chiarella si allontana.

Ma Alberto sa che potrà ritrovarla e risvegliarla di nuovo con la sua voce, i loro ricordi , le loro fotografie o un oggetto della loro vita in comune, anche se solo per un attimo. Alberto finché avrà vita non si arrenderà.

L’amore è l’anima di questo racconto. Siamo poco abituati al giorno d’oggi ai grandi amori che durano tutta la vita e leggendo, credo, tutti ci troviamo a sperare di provare un sentimento tale nella nostra vita. Un amore che dà e non chiede, che si butta nella lotta con armi impari, perché sicuramente ne vale la pena.

Quando riflettevo su questo racconto mi è affiorato il ricordo di una lettura che ho fatto qualche tempo fa: una coppia come Alberto e Chiarella, una moglie che ormai non riconosce niente e nessuno ma il marito si presenta ogni giorno in ospedale. Una infermiera, incuriosita, domanda all’anziano: “ma perché viene tutti i giorni, lo vede che sua moglie non la riconosce nemmeno?” E il marito , paziente , spiega: “ha ragione , signorina, mia moglie non si ricorda di me, ma io mi ricordo perfettamente di lei, per questo sono qui tutti i giorni.”

E rimaniamo quasi increduli, non potendo fare a meno di chiederci: “ io questo amore ce l’ho?”


Edizione 2012 | "la montagna"

Se mio padre fosse ancora vivo questo premio letterario non esisterebbe e io sarei senz’altro una persona piú serena. Ma la vita non si basa su ipotesi: per questo motivo ho cercato di tirar fuori qualcosa di positivo da una traumatica esperienza che in soli cinque mesi ha sconvolto la quotidianità dell’esistenza mia e dei miei familiari. Il Premio Arnaldo Giovannetti è nato da un rapido scambio di battute con Michele mentre uscivamo dal cimitero il 28 marzo 2011, senz’altro il giorno piú triste della mia vita: inizialmente avevo ipotizzato un concorso per gli studenti delle scuole dell’obbligo della Versilia, ma Michele mi ha suggerito un concorso piú esteso. Allora ho pensato a mio padre - che pur essendo visceralmente legato alla sua terra d’origine - aveva sempre amato conoscere, viaggiare, ampliare i propri orizzonti culturali. Cosí abbiamo dato un respiro nazionale all’evento: il successo dell’iniziativa, dato che sono arrivati racconti da molte regioni italiane (dalla Puglia al Trentino, dal Friuli alla Campania), ha confermato la bontà della nostra scelta. Sul tema, invece, non ho mai avuto dubbi: sarebbe stato - almeno per la prima edizione - la montagna, amata da mio padre e nella quale - a mio avviso - sono meglio rappresentati i suoi ideali e il suo modo di essere.
— Carloalberto Giovannetti

Primo classificato “La passata” di Alessandro Cuppini

“È il racconto che ha raccolto la quasi totalità dei consensi. Non si parla mai di una cima, ma di una cresta, quella che divideva il bergamasco veneziano dal lecchese milanese. Da don Lisander Manzoni sappiamo tutti dell'Adda che Renzo passa dopo una notte insonne, ma che sul crinale del carducciano Resegone ci fosse il confine non si era mai pensato. Il racconto dei due paesi di Brunico e di Erva nel 1871 è godibilissimo. Tempi di ignoranza, con il solo prete che legge, racconta e sceneggia la cronaca nera con gente che vive di livori, rancori, latte, formaggio, pecore, galline e caccia di frodo. ll personaggio di Sciopetì, che non mette calze e non vuole moglie a rubargli il letto, con il suo aspetto lombrosiano è perfetto. Più comune è Manolo, grasso, intelligente, sposato ma forestiero. In un tempo in cui i forestieri vengono dalle altre parti del mondo si dimentica che per il razzismo bastano dieci chilometri di distanza: Mamolo fa il bracconiere e ruba, ruba trappole. È avvertito a non rifarlo da una fraccata di botte con canzoncina beffarda. Allora sconfina oltre un altro crinale e offende Sciopetì. Uccisione, processo, vendetta e arresto della moglie si incalzano. Al processo Sciopetì è colpevole per il Pubblico Ministero, perché ha la faccia da delinquente nato, innocente per l'avvocato d'ufficio perché ha la faccia da deficiente incapace a pensare un piano astuto. I paesani testimoniano tutti contro il forestiero per principio: assolto. Altra vendetta. Questo racconto ricorda quelli dei racconti del duo Guccini -Machiavelli ambientati sull’appennino (non a caso tra Granducato e Stato Pontificio), ma anche la Versilia: qui, tra Pasquilio e Altissimo (dove passava la linea gotica nel 1944-45) si confina con Massa per secoli, alla Pania si confina con gli Estensi di Ferrara, e poi Modena. Nel '600 tra Pomezzana versiliese e granducale e Casoli camaiorese e lucchese ci furono dei morti per i bei prati di San Rocchino. All’ottimo Cuppini complimenti!!!!

Secondo classificato “Il picco del paradiso” di Elisabetta Amoroso

La montagna è metafora. È la voglia di salire verso un monte dal nome inventato dell'io narrante da fanciullo (brava questa giovane autrice a far vivere un personaggio maschile). Il fanciullo diventato adulto ricorda di aver avuto due famiglie, la prima che lo ha lasciato in un orfanotrofio in Polonia, la seconda che lo ha accolto in Italia insieme al fratello. Il sentirsi come una 'buona azione' dei genitori adottivi, premiati da Dio con una figlia vera, il disadattamento scolastico, il carattere ribelle, credendo di esser compreso dalla sola nonna, che vive in un paese di montagna, la sua impreparazione alla imminente paternità gli impongono di salire sul suo colle da solo. È mai stato accettato come figlio? Perché ora deve accettarne uno suo?”.

Terzo classificato “In cima alla montagna” di Fabio Muccin

L'autore sale per ritrovare sè stesso nella memoria del padre. Sceglie le parole come perline da legare a fila, descrive la fatica, il bosco e il sottobosco, il dolore e la tentazione della morte dolce di freddo, stanchezza, sonno. La madre è la terra, “cor teneat coelvm cetera terra parens” ma il padre va cercato verso il cielo, ascesa, memoria di colui che cerca sè stesso per perdersi. Formiche, ciuffi di animali, rugiada e persino colti 'cocci di bottiglia' montaliani. È poi l'altezza, il cielo, la vetta e un fiore giallo. Dopo la madre terra, brulicare di vita, anche il padre cielo, ci lascia un piccolo fiore giallo.”